B. Vandermersch – Curare la depressione

CURARE LA DEPRESSIONE

Bernard VANDERMERSCH

13/02/2009

Ospedale di  Gonesse

Reparto del Dr. LABERGÈRE

 

 

O. Labergère

(Ringraziamenti a B. Vandermersch)

Siamo estremamente onorati di ricevere Bernard Vandermersch nel nostro piccolo seminario che ha solo due anni d’esistenza; felicissimi che egli abbia accettato di fare un intervento. Sapete che si dice sempre: «Non si presenta il Dr. Bernard Vandermersch», ed è un modo di presentarlo.

Sapete tutti che viene nel nostro ospedale da più di dieci anni per fare una presentazione di malati il cui titolo ufficiale è «clinica psicoanalitica all’ospedale», e quelli che lavorano nel reparto sanno quanto questo apporta alla nostra clinica, alla nostra riflessione.

D’altronde egli è psichiatra e, credo che sia importante segnalarlo, è anche psicoanalista, membro eminente, vice-presidente dell’ALI, l’Associazione Lacaniana Internazionale. Egli è anche uno degli autori, co-direttore con Roland Chemama del Dizionario della psicoanalisi pubblicato dall’editore Larousse*, che è una delle bibbie che bisogna comunque avere quando si lavora nel campo. Si diceva che è un dizionario freudo-lacaniano, e questo io trovo che va benissimo, è così?

B. Vandermersch

Ci sono delle voci freudiane e delle voci lacaniane. Freudo-lacaniano è espressione criticabile nel senso in cui tradirebbe una volontà di non fare la distinzione. Se si è cambiato il nome dell’Associazione freudiana per quello di lacaniana, è anche per mostrare che il primo riferimento è a Lacan e non più a Freud. La maggior parte dei membri dell’Associazione Lacaniana sono entrati in psicoanalisi con un transfert per Lacan e non per Freud. Lacan ha detto di essere freudiano, cioè che era su Freud che aveva attuato il transfert, ma per quel che mi riguarda devo dire che Lacan è il primo analista che ho incontrato. L’ALI ha preso atto di questo cambiamento, perché si ha il dovere di riconoscere su chi si è realizzato il transfert, ciò che non vuol dire restare prigionieri di questo debito.

Si tratta di un punto marginale rispetto a ciò di cui parlerò, ma forse non completamente.

O. Labergère

Ciò di cui lei parlerà, il titolo, mi ha molto incuriosito: «Come curare la depressione?». Già questo mi evoca tante.., abbiamo fretta di sentirla su un argomento che resta meno allineato rispetto ai soliti argomenti.

B. Vandermersch

Non insegnerò agli psichiatri quel che fanno tutti i giorni..

O. Labergère

Essi trattano la depressione, non la curano, la trattano.

B. Vandermersch

Olivier, quale distinzione fa lei fra curare e trattare? Perché io ho un altro titolo, se occorre!

O. Labergère

Questo titolo mi ha incuriosito molto. Mi sono detto «Come curare la depressione?» assomiglia un po’ ai titoli di Odile Jacob, ci si dice: «Guarda! Ci darà la ricetta, come curare la depressione».

E tuttavia gli psichiatri non curano. Ciò che fanno è un trattamento, si conoscono i trattamenti della depressione, ad esempio il trattamento farmacologico, ecc..

C’era di peggio: «Come guarire la depressione»; lei non è andato fin lì!

Ma «Come curare la depressione» è un po’ sfalsato rispetto a ciò che è un trattamento psichiatrico.

B. Vandermersch

Detto questo, ci sono delle depressioni da cui comunque si guarisce!

O. Labergère

Sì, e anche spontaneamente!

B. Vandemersch

Bene! Allora, se fossi stato ancora più pretenzioso, avrei detto «Preliminari a ogni trattamento possibile della depressione», il che avrebbe ricordato ad alcuni un celebre titolo!

Come curare una depressione, ciò suppone un primo problema: la depressione è una malattia? C’è un famoso manuale, il DSM II, III, IV. Il DSM IV, in ogni caso, è un manuale che propone una classificazione universale ateorica, cioè che si suppone neutra rispetto alle diverse teorie esplicative. Il DSM IV dice: «La questione è risolta, bisogna liberarsi dal dualismo corpo-spirito e non c’è una distinzione fondamentale da stabilire fra disturbi mentali e affezioni generali di natura medica».

È il punto di partenza del DSM IV. Tutto è dunque molto semplice: questa malattia presenta dei segni, bisogna farne la diagnosi, essa ha una epidemiologia, una prevenzione, per la quale d’altronde siamo stati consultati. Sapete che c’è in questo momento una grande campagna contro la depressione, si sono pure consultate delle scuole di psicoanalisi per questo. Ma devo dire che, quando c’è stato l’incontro con queste persone, era chiaro che tutto era già scritto: i trattamenti, il loro costo sociale, ecc..

Si è molto rimproverato a questa concezione di favorire eventualmente e di spingere ad un consumo eccessivo di antidepressivi, se è una malattia, allora bisogna curarla con dei farmaci.

Onestamente, non sono sicuro che il consumo eccessivo di farmaci, che certo non è una visione teorica, dipenda direttamente da questa scelta teorica, esso mi sembra piuttosto dipendere dall’evoluzione del mondo contemporaneo, della soggettività contemporanea, dove ognuno si sente obbligato ad essere competitivo in un ambiente in cui la competitività è implacabile.

Poiché ciascuno è sollecitato ad assoggettarsi al godimento piuttosto che a sostenere il proprio desiderio, si tratta di essere competitivi in tutto e, per cominciare, nel godimento, e al miglior prezzo. Nondimeno, questo spiega che ci sia un consumo eccessivo, perché «se fate all’amore, è bene, ma, se lo fate col Viagra, è meglio». Questa è l’idea complessiva.

Si può pensare che questa scelta teorica è stata favorita dalle industrie che producono le medicine per questa malattia così crudele e così costosa per la società.

Credo che sia più utile porsi non sul piano ideologico, ma su quello della clinica. Ed io rimprovererei piuttosto a questa concezione del DSM IV un accecamento nel cantare vittoria contro un dualismo che è completamente errato in effetti, mentre essa misconosce il luogo reale della divisione, cioè quella del corpo, fra un corpo che è il corpo utile, il corpo oggetto della scienza, e il corpo “inutile”, quello che è sottomesso al godimento, il godimento essendo ciò che non serve a niente.

Ignorando questa distinzione fra corpo per la scienza e corpo per il godimento, essa elimina il significato morale, il significato soggettivo, per ciascuno, della depressione. A considerarla come una semplice malattia, si dimentica di prendere in considerazione la sua valenza etica per il soggetto. Ne consegue il paradosso che talvolta, eludendo questa dimensione, il beneficio che ci si potrebbe legittimamente attendere da un trattamento antidepressivo non ha luogo.

Qui avete molti esempi di depressione resistenti che ci obbligano ad interrogarci su “che cosa fa sì che (la depressione) resista?” È semplicemente perché quella molecola non è bene adattata al circuito sinaptico carente, o è perché c’è una posizione soggettiva che non è stata smossa e tutti i trattamenti passeranno sul soggetto come l’acqua sulle piume dell’anatra?

Quando si guarda il DSM IV, non si trova un capitolo «depressione», si trova un capitolo «disturbi dell’umore». La questione della parola «disturbo»..

O. Labergère

Il termine è disorder..

B. Vandermersch

Dunque, non è disturbo. Ciò potrebbe indicare un atteggiamento prudente, un atteggiamento fenomenologico che non pretende di accedere all’essenza dell’entità morbosa.

La maggior parte degli autori che utilizzano questo codice considerano tuttavia che i disturbi dell’umore descritti e isolati sotto il nome di “disturbo bipolare 1 o 2” corrispondono realmente a delle entità che hanno un’origine genetica specifica. Questa è la teoria oggi dominante.

Notiamo per esempio che l’aggettivo “reattivo” è quasi scomparso dalla nomenclatura.

Non c’è più depressione reattiva, non c’è più nemmeno depressione nevrotica.

Quanto al termine psicotico, esso esiste nella nomenclatura, ma non rinvia all’idea di struttura, poiché si è in un mondo ateorico, ma alla presenza di certi sintomi. Questa posizione detta ateorica può essere facilmente ricondotta ad una concezione neurofisiologica di questi disturbi, il che suppone una normalità sana, che si basa sulla nozione di benessere e sul criterio di adattamento alla società.

È in rapporto dunque a quest’idea di normalità sana, di adattamento e di benessere che si descriverà la depressione. Non mi dilungherò sul carattere ideologico di questa concezione che si vuole ateorica, ma, per esempio, l’omosessualità non c’è più tra le parafilie, la pedofilia,  invece, è rimasta. Si vede bene che tutto questo è dettato dal politicamente corretto.

D’altra parte l’idea del DSM IV mette fra parentesi il soggetto che manifesta i sintomi. Si avrebbe una specie di accesso diretto al sintomo senza ricorrere ad alcuna teoria. Ci sarebbe una sorta di evidenza: i sintomi sono lì, chiunque può vederli. Non ci sarebbe bisogno di una teoria dello psichismo per scoprire i sintomi.

Le conseguenze per la presa in carico sono molteplici e innanzi tutto riguardo all’obbiettivo della consultazione, poiché il colloquio qui consisterà nel permettere di fare al più presto le diagnosi positive, obbiettive di disturbi timici, al fine di proporre delle terapie tese a modificare il funzionamento cerebrale con delle droghe agenti su delle trasmissioni sinaptiche specifiche, eventualmente associate con delle terapie miranti a raddrizzare gli schemi comportamentali disturbati. Questa è la posizione dominante.

Poi, bisognerà assicurarsi che il paziente consenta al trattamento (compliance), cioè che il paziente assuma effettivamente il suo trattamento.

Grosso modo, ecco dunque la condotta che è riservata agli psichiatri: 1) fare una diagnosi rapida; 2) mettere in moto i trattamenti e le terapie che hanno lo scopo di raddrizzare il comportamento deviante tramite la cognizione, mostrare al paziente che egli è vittima di false cognizioni o, in modo più modesto ancora, cercare di ricondizionare le cose.

Ne deriva un certo disinteresse per la clinica del discorso che permetterebbe a un medico di situare il soggetto depresso nelle sue difficoltà, in rapporto al suo desiderio e al suo godimento.

Ne deriva in conseguenza, e questo è un po’ più grave, una perdita della dimensione etica di questi sintomi. Il senso di colpa è ridotto ad un fatto morboso, non è normale essere colpevoli, sentirsi colpevoli, per esempio. Così, il tentativo di alleviare il senso di colpa con questo punto di vista scientifico, facendo della depressione una malattia come le altre, finisce con l’estendere questa diagnosi e i benefici attesi dal trattamento ad una parte sempre più grande degli esseri umani, perché è un fatto che la maggior parte degli esseri umani sono depressi, è questo il problema, e che il nostro umore normale è piuttosto un umore depresso: «Come stai?» «Come un lunedì», «Coraggio!», «Lasciamo andare».

Quando chiedete a qualcuno «Come stai?» ed egli vi risponde «Oh, benissimo!», subito si pensa: ci siamo, è in uno stato maniacale, non va, se qualcuno sta veramente bene, allora non va, non è normale stare benissimo. D’altronde è ciò che succede qualche volta con i trattamenti antidepressivi, il soggetto sta troppo, troppo bene.

Dunque, i risultati formidabili, bisogna pur dirlo, di certi trattamenti delle grandi depressioni, in altri casi sembrano deludere, sembrano addirittura far sprofondare certi pazienti in un vero incubo farmacologico, in cui essi passano degli anni ad aumentare, diminuire, cambiare i trattamenti.

Si è notato che alcuni trattamenti antidepressivi  negli adolescenti tendono piuttosto ad aggravare la depressione. Sapete che il consenso sul fatto che bisogna curare tutti quanti, tutti i depressi, si ferma tuttavia quando si tratta del bambino e dell’adolescente. Per loro è controverso, non parlo degli psicoanalisti, parlo degli psichiatri seri.

Incidentalmente, vi ricordo che il termine “colpevolizzato” data dal 1946 e  “de-colpevolizzato” dal 1968. Non si tratta di parole molto antiche nella lingua francese, ed è per dirvi fino a che punto c’è una modificazione, un cambiamento nella soggettività. Oggi nessuno è colpevole. «Ho dei sensi di colpa, dottore», cosa vuol dire se non che sento indebitamente dei sensi di colpa che non dovrei sentire, visto che non ho fatto niente di male, certo.. Questa non è la posizione di Freud, che diceva che, se uno si sente in colpa, vuol dire che lo è; semplicemente, (questo senso di colpa) è spostato, ci si sente in colpa per essere in ritardo all’appuntamento, ma in realtà è perché si è desiderato uccidere.. Il senso di colpa è spostato. Questa posizione non è nemmeno quella di Lacan che è ancora più radicale e che, devo dire, non è ben capita. D’altronde, egli non si è preoccupato perché fosse accettabile visto che, in Televisione, dice che la depressione è una viltà morale. E, nel seminario L’Etica della psicoanalisi dice che non si è mai colpevoli, almeno nel senso della psicoanalisi, se non di aver ceduto sul proprio desiderio.

Detto questo, per ciò che mi riguarda non è questione di negare il carattere di malattia ai disturbi depressivi, se si ribadisce che le perturbazioni supposte dell’organizzazione neuro-ormonale di questi malati e quelle del loro comportamento non sono senza rapporto con delle posizioni soggettive specifiche. Non dico che sono dovute a queste posizioni specifiche, dico che esse non sono senza rapporto con delle posizioni specifiche.

Intendo per soggetto l’effetto che può essere prodotto, uno degli effetti eventualmente prodotti su un corpo umano dalla sua presa nel linguaggio. Altrimenti detto, i disturbi depressivi sono anche dei disturbi del linguaggio. Questi disturbi si manifestano nell’enunciazione, nella qualità degli enunciati, qualità metaforica degli enunciati, nel tipo di messaggio indirizzato all’altro, nel rapporto con gli ideali collettivi o individuali, nel senso di colpa, nella temporalità, tutte nozioni che sono impensabili fuori dal riferimento ad un ordine simbolico, cioè all’ordine del linguaggio.

«Sì, ma gli animali, anche loro sono depressi, Signor Vandermersch!» Effettivamente, ci sono dei modelli animali della depressione, essi sono utili d’altra parte per situare le strutture cerebrali che sono implicate nella regolazione neuro-ormonale dei comportamenti come pure dei mediatori chimici specifici. Detto questo, ci sono comunque delle differenze fra l’organizzazione cerebrale dell’homo sapiens e i suoi vicini più prossimi. In particolare, il fatto che in noi una buona parte della testa è invasa dai centri del linguaggio. In ogni caso, questi modelli animali, per quanto interessanti, non saprebbero rendere conto della dimensione etica delle malattie depressive.

 

Cercherò adesso di dare alcuni elementi per una metapsicologia delle depressioni che può essere utile per cercare di orientarsi nella clinica. Generalmente gli psicoanalisti sono d’accordo nel vedere nella depressione una conseguenza della dipendenza dell’io dall’ideale dell’io, nel senso che uno si conduce nella vita sempre sotto uno sguardo che lo giudica e che gli dice «Va bene, tu fai bene il tuo lavoro, la tua conferenza è buona», oppure «No, avresti potuto prepararla meglio».

Ci si sente bene se si sente che si risponde all’ideale dell’io. La depressione si ha quando non si è più bene illuminati dal proiettore, quando si è usciti dal cono, quando si è nel buio. È seccante perché ho bisogno che questa immagine che ho di me, che chiamo “io”, che è solo un’immagine di me, un riflesso all’infinito, dipenda dall’accettazione da parte dell’ideale. È un fatto che io preferisca avere una cattiva immagine di me piuttosto che nessuna immagine. D’altra parte il depresso – parlo del depresso nevrotico – insiste molto sulla cattiva immagine che ha di sé.  Egli fallisce sempre ecc. .. Parla di questo per delle ore, egli si regge su questa cattiva immagine.

Nella depressione, che cosa succede? Succede che, o è l’io che si trova a perdere la stima, è il caso più banale, l’io che esce dunque dal campo del riconoscimento, oppure è il supporto dell’ideale dell’io che decade. È il luogo da cui mi vedo che viene meno.

Per esempio, in caso d’incesto, una bambina è stuprata dal padre o da uno zio, la depressione che ne segue è legata tanto alla caduta dell’ideale, di là da dove ero visto come amabile, quanto a quella dell’io. Non va più, è il profondo scoramento. Si possono pure fare degli esempi, quasi storici: quando Nasser è morto tutta la popolazione egiziana era in una specie di lutto. Colui che era il sostegno, che rendeva fieri di essere egiziani, d’un tratto è crollato.

Dunque, non è soltanto l’io che può perdere la stima, a volte è l’ideale che cade, o per delle ragioni legate al decesso, o per delle ragioni legate al deterioramento di questo luogo. Ma qui si presenta questa obiezione: è giustamente per conservare la stima dell’ideale dell’io che il soggetto potrà cedere sul suo desiderio, rimuoverlo, e di conseguenza potrà affossarsi nel senso di colpa per la sua vigliaccheria, senso di colpa che sarà tanto più nascosto quanto più esso gli varrà la stima, durante tutto un tempo, di questo ideale dell’io; il piccolo bravo bambino che fa piacere alla sua mamma, che va bene a scuola e che rinuncia a tutti i desideri che si frappongono.. Durante tutto un tempo va bene, ma il giorno in cui dovrà realmente confrontarsi con la questione del suo desiderio, la depressione sarà in agguato. Non è un caso raro quello di chi ha fatto degli studi brillanti, delle scuole prestigiose, e che al momento di entrare nella vita.. “bum”, crolla.

Bisognerebbe d’altra parte distinguere nell’ideale dell’io ciò che è supportato dalla figura di un padre che è egli stesso un padre desiderante, o una madre desiderante, che può autorizzare una certa trasgressione dei limiti, e l’ideale che sarebbe rimasto legato ai segni di riconoscimento della madre e che può assumere un aspetto paralizzante, lasciando il soggetto prigioniero della domanda d’amore.

L’umore del soggetto non è dunque soltanto legato a questo rapporto dell’io con l’ideale dell’io, esso è anche strettamente dipendente dal rapporto del soggetto col suo desiderio. Non è la stessa cosa conformarsi all’ideale e comportarsi conformemente al desiderio inconscio che ci anima. Spesso le due cose sono in conflitto, come ho fatto notare or ora.

Bisogna dunque distinguere due strati, due livelli d’immaginario, il livello dell’immaginario speculare, quello del rapporto con i miei simili, che fa sì che io sia riconosciuto da loro, che mi ritrovi in loro, ecc., sempre sotto lo sguardo dell’ideale; e poi l’immaginario del fantasma, che è un immaginario inconscio che mi guida nella ricerca del mio godimento.

Come s’instaura questo desiderio? È importante arrivarci per capire un po’ la questione della depressione. È necessario fare qui un’ipotesi che l’osservazione diretta del bambino, o retrospettiva nella cura, permette di toccare con mano.

La costituzione presso il bambino dell’oggetto che causerà il suo desiderio, ci ricorda Charles Melman, è contemporanea e correlativa di una rinuncia, di una perdita, di un lutto. Di che cosa? Lutto dell’essere che egli pensava o sperava di assumere, cioè essere ciò che mancava a sua madre, quel che chiamiamo fallo immaginario.

È il fallo come significante e non come organo, poiché il fallo della madre non esiste come organo, quest’organo non esiste, ma il fallo immaginario della madre è qualcosa di molto pregnante. Il bambino è quello che bisogna ben educare, bene allevare, è così che viene introdotto nel mondo.

Questo lutto, la perdita di questo essere, è la condizione della formazione dell’oggetto esaltante, dell’oggetto illuminante che causerà il suo desiderio e dunque l’organizzazione del suo mondo. Se non c’è questa perdita preliminare, non c’è luogo dove poter situare quest’oggetto che causerà il suo desiderio. Bisogna innanzi tutto che ci sia un posto vuoto dove potere depositare questi oggetti da cui ci si separerà, per potere costituire il proprio desiderio.

Ne risulta che la gioia non è più separabile dal lutto, l’esaltazione dalla depressione, anche se, dice Charles Melman, per delle ragioni oscure che attengono sia alla nostra organizzazione fisiologica, sia alla consistenza data alla nostra discorsività (è difficilmente concepibile che si sia nello stesso tempo depressi ed esaltati, è shoccante per il pensiero che ci si senta contemporaneamente bene e male), questa coesistenza del dolore e della gioia si trova ordinariamente risolta mediante una organizzazione ciclica dell’umore.

D’altra parte, è ciò che il calendario liturgico riprende, ci sono delle fasi di lutto, l’Avvento, la gioia di Natale, e poi si ricomincia con la Quaresima, di nuovo l’esaltazione di Pasqua, ecc.. Poi c’è tutto un tempo di vacanza che è un po’ lunghetto. In tutte le religioni c’è qualcosa di quest’ordine ciclico, una ritmicità dei momenti di lutto e dei momenti di esaltazione.

L’instaurazione del desiderio richiede dunque l’accettazione di questa perdita: non essere il fallo della madre, non essere il fallo tout court. Questo significante liberato avrà allora il potere di metaforizzare gli oggetti conferendo loro uno splendore proprio a renderli desiderabili, poiché essi prenderanno giustamente il posto di quest’oggetto, di questo significante che non s’instaura che grazie alla perdita di Uno, di essere il fallo immaginario della madre.

Ma anche, esso si paga sul corpo, del bambino in ogni caso, con la perdita del pene nell’immagine speculare; questo vuol dire che nell’immagine investita gli organi genitali non appaiono, non sono più dentro, ciò che non vuol dire che essi non restino attaccati auto-eroticamente. Ma è un fatto che in tutte le culture si mette qualcosa davanti al pene, esso deve essere nascosto, non deve essere investito narcisisticamente. È il segno che esso ha una funzione nell’ordine simbolico, sparisce dall’immaginario per avere una funzione nell’ordine simbolico.

Il pene è diventato sconveniente. Vi meravigliereste molto se il Dr. Labergère, per fare valere la sua autorità, mettesse i suoi testicoli sulla tavola, giustamente lo trovereste sconveniente, benché questa forma d’interdetto tenda ad attenuarsi. C’è una corrente teatrale che propende per la nudità. Non si può più vedere uno spettacolo senza che improvvisamente tutti gli attori si ritrovino nudi senza che si sappia esattamente perché, se non forse perché essi  ne godono. Non è forse senza rapporto con la proliferazione nel nostro secolo della depressione.

La depressione generalizzata mi sembra andare di pari passo con questa eliminazione di un tabù sulla rappresentazione degli organi sessuali e dunque con una rappresentazione senza metafora. Non è la stessa cosa fare una pubblicità con degli aerei ben affusolati dove ciascuno vede bene che c’è una simbologia fallica, e sostituire un aereo con un grosso pistolino dicendo «Con questo andrete più veloci».. Capite la differenza, è la metafora che è perduta.

Ciò non è senza rapporto con la depressione. La depressione è la perdita del potere metaforico, del potere poetico, del potere che trasfigura l’oggetto banale in oggetto meraviglioso. Tutto diviene uguale, grigio, senza valore, noioso, niente si accende.  – «Allora, Signora, come sta?» – «Sempre lo stesso, dottore, sempre lo stesso!». Un colloquio con un depresso è molto deprimente.

Grazie a degli sforzi sostenuti, si è riusciti ad ottenere da lui delle informazioni piuttosto interessanti sulla sua storia, ad aprire delle piste che gli permetterebbero di interrogarsi in modo un po’ diverso su ciò che gli succede, ed ecco che alla fine del colloquio egli vi dice tranquillamente «Come potrò uscirne, Dottore?». Niente è stato smosso, tutto è come prima, come se niente fosse stato detto, nessuna via aperta fra l’inizio e la fine della consultazione.

C’è come una degradazione della funzione significante del linguaggio, una sorta di stasi, una eternizzazione del tempo con la perdita della scansione e la ripetizione dello stesso. È come se il significante perdesse la proprietà di essere differente da se stesso, e non rinviasse più ad un aldilà, ma sempre alla stessa significazione annichilente per il soggetto. È ciò che io designo con la perdita della funzione metaforica.

Ora, la metafora implica la rinuncia al dominio del sapere. Questo è interessante a livello della presa in carico dei depressi, non si tratta di rifilare loro del sapere, ma piuttosto di fare in modo che mollino la presa su un sapere assoluto.

La metafora implica lasciar cadere il dominio del sapere, nel senso che essa stacca la parola dalla sua significazione immediata. Con ciò essa rompe l’accordo presunto e illusorio della parola con la cosa, sospende la significazione e fa intendere allo stesso tempo il non-senso profondo di ogni significante, il godimento che lo determina. Niente è più deprimente di qualcuno che vi dice sempre “un gatto è un gatto”.

È il motivo per cui il valore delle parole, come pure degli atti, è il mezzo essenziale per il dispendio del godimento necessario, prodotto dal lavoro dell’inconscio. Quando dico godimento, non parlo di piacere, parlo dell’aldilà del piacere, dell’aumento della tensione nel corpo, nel pensiero. Tensione che non può scaricarsi se non in un’attività che sia significante per il soggetto.

Non basta attivarsi, come lo si consiglia al depresso «Faccia dello jogging!». Bisogna che questa attività abbia un valore metaforico per lui. Se essa ha perduto il suo valore metaforico, si potrà obbligarlo a fare tutti i giri dell’isolato che si vuole, questo non cambierà niente.

Questo «Come ne uscirò, Dottore?»  della fine della consultazione rivela una modalità degradata del significante, un modo cosciente, unicamente cosciente, informativo, di controllo del senso, una posizione che sembra rifiutare il dispendio del godimento. C’è nella depressione come un rifiuto dell’inconscio o piuttosto della sorpresa con la quale esso si manifesta.

C’è d’altronde spesso un camuffamento dei sintomi, dei sogni (eccetto che nelle depressioni post-traumatiche dove è sempre lo stesso sogno traumatico che ritorna), a profitto di un discorso estenuante, la cui assenza d’interesse affligge il soggetto stesso, il che fa sì che il depresso finisce per evitare di parlare, tanto è deprimente per lui stesso.

C’è dunque in ogni stato depressivo una tendenza alla perdita temporanea del potere metaforico della parola, non della significazione che è perfetta, ma della creatività del significante.

Vi ho detto che l’instaurazione del desiderio è correlativa alla perdita che permette la costituzione del simbolo fallico, e grazie a questa perdita si può costituire un oggetto, l’oggetto che causerà il desiderio del soggetto. La costituzione di un oggetto causa del desiderio del soggetto è ciò che si chiama “fantasma”. Il fantasma è un’interpretazione dell’enigma del desiderio dell’Altro su di sé. Il primo Altro con cui si ha a che fare è nostra madre.

Quando un soggetto sostiene il suo desiderio, questo riattiva per lui l’operazione per la quale egli lascia perdere il suo essere fallico, per introdurre la chiave del suo oggetto nella serratura della castrazione. Ogni volta che voi tenete vivo il vostro desiderio, c’è un rinnovamento, una punta di angoscia, perché dovete di nuovo cedere l’oggetto che causa il vostro desiderio. Non è senza perdita che si può sostenere il proprio desiderio, è più facile rispondere alla domanda, da cui il gioco permanente fra l’angoscia, che è un richiamo all’impegno “Coraggio, al prezzo dell’angoscia!”. L’angoscia non è dunque assolutamente una malattia, è un fatto normale, è un punto di riferimento etico per il soggetto. Quando non si è mai angosciati, è che non si è mai dove si deve essere, è che si sta trascorrendo la propria vita à côté.

L’angoscia è comunque un riferimento per sapere che si è là dove “conta per me”, là dove è importante per il soggetto, un richiamo all’impegno.

Non parlo di tutte le angosce, ci sono angosce psicotiche che sono di un altro tipo.

E poi c’è la depressione che è una contrazione su un falso essere fallico, ove si è ridotti a questo oggetto immondo, l’oggetto che deve essere sottratto alla rappresentazione per poter sostenere il desiderio.

Tutto ciò che mantiene il soggetto nella posizione del fallo fa ostacolo al funzionamento del fantasma ed espone alla depressione.

Notate che ciò che sto dicendo va nel senso contrario a quello di molti programmi psicoterapici, che invece fanno balenare l’assunzione dell’essere autentico del soggetto: “Diventi più se stesso, si realizzi, si ancori nell’essere”. C’è un momento che può essere esaltante, ma non si risolverà nulla, bisognerà pur lasciare questo essere a un certo momento, e così non si fa che rinviare la depressione a più tardi.

L’insorgere della depressione sarà dunque sempre favorito quando l’istanza fallica che organizza il fantasma o non si è mai avverata, oppure è denegata, o contestata.

E qui entrerò, con Charles Melman, nei tre grandi tipi di depressione a partire dalle categorie del reale, del simbolico e dell’immaginario.

 

• La melanconia, cioè la forclusione dell’istanza fallica: questa non si è mai verificata.

La presentazione del paziente è caratteristica, cito Henri Ey: « È seduto, immobile, piegato, pallido, occhi spalancati, sguardo fisso, fronte corrugata, sopracciglia aggrottate, il malato prostrato non parla, geme e piange, presenta inibizione e abulia, sentimenti depressivi, tristezza, noia, disgusto, scoraggiamento, disperazione, rammarico, sofferenza morale, anestesia affettiva. Tutto ciò è interessante, abbiamo detto or ora che egli soffre atrocemente e nello stesso tempo è affettivamente anestetizzato, e questo è molto importante. È ciò di cui spesso si lamentano i pazienti, essi non sentono più niente ed è atroce non sentire più niente. Pessimismo, auto-accuse, indegnità, senso di colpa e vergogna, ipocondria, marcio, contagioso, appestato, non-malato ma colpevole, ricerca della morte, rifiuto dell’alimentazione, ossessione del suicidio, ricerca del suicidio incessantemente immaginato, con la possibilità a qualunque momento di un suicidio solitario o collettivo, con dei disturbi somatici costanti, costipazione soprattutto».

Aggiunge Henri Ey: «Questo durerà sei o sette mesi, finché il malato non esce dal suo incubo con una meraviglia divertita». Altrimenti detto, se riuscite ad ottenere un risultato terapeutico grazie alle nuove molecole nel giro di sei mesi, questo significa semplicemente che non avrete impedito l’evoluzione spontanea della maggioranza delle melanconie verso un ritorno alla normalità. Si tratta di un testo scritto prima dell’avvento degli antidepressivi.

Detto questo, io scherzo un po’, perché è proprio in questi casi che i farmaci sono più indicati.

In base alla mia esperienza, bisogna soprattutto privilegiare come patognomonica, cioè come specifica della melanconia, una ipocondria particolare con l’allusione talvolta discreta a qualcosa di un poco marcio in sé, che preesiste talvolta all’instaurazione di un quadro depressivo completo.

Bisogna insistere pure sul carattere oggettivo del senso di colpa, un carattere non dialettico del senso di colpa o della perdita addotta, della rovina allegata, e sull’aspetto rigido, non dialettico degli enunciati; si tratta di una vera patologia del linguaggio.

A queste persone potete far notare che la colpa di cui si accusano non è gran cosa. Questo non ha assolutamente alcun effetto, si tratta di un senso di colpa oggettivo. Nella melanconia c’è dunque una perdita di questa istanza fallica.

Si può osservare questo nell’anziano, ma allora forse non si tratta di un’assenza congenita di questa istanza. Si può considerare l’ipotesi che, affinché l’istanza fallica funzioni, bisogna che qualcosa nel corpo vi risponda. Forse in un anziano molto indebolito, con la perdita delle facoltà fisiche, qualcosa contribuisce a far crollare la funzione fallica.

Dunque una perdita reale che organizza la mancanza nell’Altro.

Se il lutto è una perdita, la melanconia è una perdita al secondo grado; non è un lutto, è la perdita della perdita, la perdita dell’istanza che permette di perdere, di simbolizzare la perdita.

In mancanza della possibilità di perdere, non c’è più desiderio possibile, e la sola cosa che c’è da perdere è il soggetto stesso, cioè quello che si espelle dalla scena, perché ci sia nuovamente una perdita, una incompletezza nella scena.

Altrimenti detto, la melanconia è una malattia del troppo pieno, non c’è più mancanza.

D’altra parte, il soggetto che parla non è più il soggetto animato dall’oggetto detratto dalla rappresentazione, è, come dice Marcel Czermak, l’oggetto stesso che parla, l’oggetto immondo. Il soggetto è totalmente ridotto a quest’oggetto immondo, e non si difende più da questa identificazione, mentre il paranoico, invece, se ne difende. Lo si accusa di essere questo oggetto immondo, ma egli se ne difende; nella melanconia, per contro, c’è una specie di accettazione ed anche rivendicazione di essere questo oggetto immondo.

Si vede bene che c’è frattura tra la paranoia e la melanconia, anche se si vedono qualche volta dei paranoici cadere d’un tratto nella melanconia, perdere il loro astio e la loro stenicità difensivi.

È come se dunque non fosse più il soggetto a parlare delle difficoltà col suo desiderio, con l’oggetto causa del suo desiderio, come tutti quanti qui, ma piuttosto come se fosse l’oggetto stesso a denunciarsi; l’oggetto immondo, indegno di figurare nel mondo e colpevole per essere ancora lì. Il segno patognomonico della melanconia è questa constatazione di un essere minato, marcio, di un essere che infetta il mondo; però queste cose non si vedono sempre,  spesso sono un po’ più discrete, ma in definitiva questi piccoli segni di rovina sono interessanti, ed io penso ad una signora che avevamo presentato e che ci aveva procurato delle serie preoccupazioni. Apparentemente, malgrado l’auspicio della sua terapeuta, andava e veniva regolarmente, ciò che poneva veramente la questione della sua melanconia, dell’origine della sua melanconia. Nel suo caso si trattava di uno stato cronico, non era una melanconia di quelle che durano sei mesi.

Siccome non c’è più separazione fra il soggetto e l’oggetto, ma una pura identità, gli orifizi del corpo sfumano, al limite il corpo non ha più orifizi, non c’è più buco, e, al limite, il corpo stesso non si staglia più nello spazio e nel tempo, e avrete la sindrome di Cotard, in cui il soggetto afferma di essere già morto, eterno, enorme, della dimensione stessa dell’universo, pretende di non avere più organi. Lo si chiama pure il delirio di negazione. Non so se ne abbiamo visti qui, non ricordo di averne presentati..

O. Labergère

Credo di sì, ho una paziente qui, penso che era..

B. Vandermersch

Sarebbe interessante.. c’è un revival d’interesse per questa sindrome, sembra, pure negli USA!

In ogni caso c’è un punto che permette di orientarsi un po’, ed è che, a differenza delle depressioni nevrotiche che affettano l’immagine dell’io, la melanconia concerne l’essere stesso del soggetto, non la sua immagine. È egli stesso che è cattivo, marcio, minato, non è solo l’immagine che è colpita, è l’essere stesso del soggetto.

Queste depressioni costituiscono il dominio elettivo dei trattamenti antidepressivi, ma quando la componente d’angoscia con agitazione prevale sull’inibizione, il rischio del suicidio è tale che è meglio talvolta ricorrere all’elettroshock d’urgenza, quando lo si può fare.

L’elettroshock non merita questa specie di condanna emotiva. So bene che se ne è fatto un uso esteso ed eccessivo, ma oggi c’è un pathos legato all’elettroshock, che non è giustificato; esso ogni tanto, invece, è utile.

Nella melanconia tipica, quella della psicosi maniaco-depressiva, siccome è prevedibile una ricaduta, è giustificato prescrivere un trattamento preventivo col litio o con certi antiepilettici. Ci sono alcuni che lo trovano pericoloso – è vero che è necessario sorvegliare – ma a mio parere, è utile.

 

• Il secondo grande capitolo delle depressioni, le depressioni dovute ad una perdita simbolica.

Non si tratta più della perdita reale dell’istanza fallica, ma di una perdita simbolica. Cosa vuol dire questo? Questo vuol dire la perdita di ciò che per tale soggetto rappresentava il simbolo della sua appartenenza fallica, ciò che gli procurava grossomodo il ticket per figurare nel mondo. Aveva il suo biglietto in tasca ma, sfortunatamente, lo perde.

Cosa può essere il simbolo della sua appartenenza fallica? Può essere la patria, può essere la famiglia, o semplicemente il suo lavoro, sua moglie, addirittura pure il suo animale domestico, qualcuno per cui il cane era tutto. Il problema degli animali domestici è che, poiché spesso essi hanno una vita più breve della nostra, siamo noi a doverne fare il lutto, piuttosto che loro a soffrire del nostro decesso.

Non si può sapere a priori per un soggetto ciò che costituisce la sua appartenenza al mondo fallico, ciò che assicura la sua dignità, non lo si sa a priori, egli stesso non lo sa, io non so necessariamente ciò che mi dà il diritto di parlarvi così, con maggiore o minore autorità.

In ogni caso, si può notare che queste depressioni si presentano spesso sotto una forma insidiosa: il soggetto continua a badare alle proprie occupazioni, soffrendo del malessere sociale abituale, continua ad avere i suoi amici, continua ad andare al lavoro. L’io si mantiene in modo precario in una specie di conformismo rispettoso degli ideali del gruppo, ma con una progressiva disaffezione del desiderio. Queste depressioni possono legittimamente chiamarsi depressioni reattive.

E la frequente gravità di queste depressioni giustifica secondo me il trattamento con gli antidepressivi. Nell’attesa che il soggetto ritrovi un supporto simbolico.

Viceversa, non sembra logico in questo caso un trattamento preventivo delle recidive.

Si è obbligati talvolta a rispettare il tempo necessario al soggetto. Alcuni trattamenti depressivi falliscono in questo caso perché il soggetto non si è ancora convertito all’idea di guarire.

Cosa succede in questi casi, cioè quando il soggetto ha dunque perduto ciò che costituiva il suo valore, la stima di sé, e lo si vuole guarire, mentre egli non è ancora dell’idea di guarire? Gli si  prescrive un trattamento antidepressivo, ma questo antidepressivo ha un effetto paradossale, cioè lo mette di buon umore, ma di un “cattivo” buon umore fittizio, che lo fa stare male; e perciò egli non segue il trattamento.

Si pone a questo livello la questione della depressione dell’anziano. Essa appartiene al primo tipo o al secondo?

 

• Infine c’è una terza forma di depressioni che dipendono dal registro dell’immaginario, che non sono legate ad una perdita radicale, una perdita primordiale, un’assenza primaria dell’iscrizione nell’istanza fallica, né a una perdita accidentale di ciò che fa il valore del soggetto, ma ad una aggressività del soggetto contro questa istanza fallica che organizza il desiderio sessuale.

Quand’è che si produce questa specie di aggressività contro la significazione fallica?  Ebbene, quando nella storia del soggetto il desiderio sessuale ha potuto essere interpretato come l’origine della sua disgrazia.

Si può pensare a certi bambini i cui genitori si sono separati precocemente a causa di un’avventura passionale di uno dei due genitori. Se questo accade prima della pubertà, l’interpretazione del bambino rischia di essere definitiva: è il desiderio che causa l’infelicità. Motivo per cui si avrà un’aggressività contro l’istanza fallica che organizza il desiderio sessuale.

In certi casi, la depressione stessa può diventare il simbolo dell’istanza fallica. Questo è ancora più interessante, quando il fallo è investito non più sul versante illuminazione, ma su quello della perdita, suo correlato; il fallo è, lo si è detto, allo stesso tempo il significante della castrazione e quello dell’illuminazione. Ma in questo caso si lascia cadere tutto il lato illuminazione e non si conserva che il lato di perdita. Il fallo che è investito in questo modo, ebbene, lo si odia..

Queste depressioni che si possono qualificare isteriche, o nevrotiche, dipendenti dunque da una perdita immaginaria, sono particolarmente resistenti dal momento che il soggetto si regge su questo. Grossomodo, è questo il suo fallo,  di non stare bene, di essere malato, malconcio. Tanto più che oggi c’è una tendenza sociale in questo senso. Colui che merita la riconoscenza del pubblico non è il valoroso combattente che ha battuto cinquanta nemici, ma la vittima, vittima sessuale, vittima di ogni specie di cose. È formidabile. Se si può far valere che si è vittima di qualcosa, si potrà andare in televisione e si avrà diritto a tutti gli onori. È molto strano perché non si vede in che cosa il fatto di essere vittima può nobilitare il soggetto. È triste essere vittima, è una disgrazia, ma da qui a farne una specie di valore fallico, questa è una novità.

Questo tipo di depressione si mostra poco sensibile ai trattamenti antidepressivi, addirittura risultarne aggravata. In questo caso è giudizioso non instaurare trattamenti in modo sistematico, e anche se la cosa si presenta come molto grave e con molti passaggi all’atto, bisogna cercare innanzi tutto di restituire al soggetto il senso protestatario della sua depressione.

Ci sono delle persone, spesso delle donne, che hanno passato tutta la loro vita nella devozione più assoluta verso il marito, verso i figli, che pensano di avere rinunciato a molte cose per questo, e che vedono il loro congiunto lasciarle, per esempio. «Allora! A cosa è servito? Perché tutte queste rinunce? Adesso faccio sciopero, ora io sono malata, spetta agli altri ora servirmi!». Tutti quanti avrete visto nel vostro entourage questo tipo di depressione e, in questo caso, nessun antidepressivo funzionerà, al limite può essere pericoloso, perché si rischia di provocare una escalation!

Bene. Posso fermarmi qui, forse. Vorrei fare una piccola osservazione per illustrare ciò che dicevo, cioè la necessità di questa mancanza nell’Altro. Quando questa mancanza è ingombrata da una formazione parassita, questo fa ostacolo al desiderio e favorisce la depressione.

Per questo, vorrei parlare di un caso di depressione grave che mi è stato riferito da un collega. Questa depressione poteva essere considerata come la conseguenza dello scacco delle difese perverse del soggetto. L’attaccamento di questo soggetto al fallo immaginario della madre l’aveva portato a costruire diversi montaggi miranti a restituire alla madre il fallo che le mancava. Avrete notato la struttura perversa.

Questo paziente alternava così feticismo e travestitismo. Con i suoi montaggi perversi il soggetto poteva sostenersi nel suo essere fallico grazie ad una immagine aggiustata della madre provvista di un pene.

Il travestito, sotto il travestimento femminile, realizza l’immagine di una donna con un pene; si è fatto l’immagine di una madre che non è mancante. Il feticcio è un po’ dello stesso ordine.

Il problema è che questo paziente si trovava dunque ad essere dipendente  dal suo supporto femminile, madre o partner, che accettava il gioco feticistico o quello del travestitismo.

La cura era caratterizzata dunque dalla monotonia di enunciati sulle sue pratiche sessuali, senza alcuna metafora creatrice di senso. Tuttavia si trattava di un signore che scriveva delle magnifiche lettere d’amore alle donne, lettere che d’altronde ne avevano sedotto più d’una. Lui stesso confessava di non essere molto interessato dall’atto sessuale: «Soprattutto  non essere ridotto a questo!». Ma la morte di sua madre, poi l’abbandono per stanchezza della partner dei suoi giochi perversi, avevano provocato dei gravi episodi depressivi.

Allora, aldilà della perdita di queste persone, la sua depressione è in relazione con la perdita della finzione di un essere fallico immaginario, artificialmente sostenuto da una pratica perversa. Il corollario di questo diniego della castrazione materna è che, essendo l’enigma del desiderio dell’Altro – “Cosa vuole da me?” – esclusivamente mascherato da questo artificio feticista, il feticcio aveva preso in qualche modo il posto del fantasma. Dicevo or ora che il fantasma inconscio è un’interpretazione del desiderio dell’Altro, ma qui è il feticcio stesso che viene a chiudere la questione.

È d’altronde degno di nota che questo paziente si masturbava ripetendo esattamente i gesti igienici che sua madre praticava sul suo pene di bambino che si temeva rischiasse una fimosi; e, per raggiungere il godimento, ricorreva ad immagini pornografiche, escludendo ogni creazione fantasmatica personale.

Nel suo  sistema c’era esclusione, messa in disparte del fantasma inconscio come sostegno del desiderio, e di conseguenza del carattere enigmatico del desiderio dell’Altro che il  fantasma interpreta. Al suo posto c’era questa otturazione attraverso l’artificio perverso, attraverso un pene protetico in qualche modo.

Vi faccio semplicemente questo esempio, si potrebbe eventualmente farne altri per mostrare come la depressione sorge sempre, e di fatto è favorita, quando nel sistema del soggetto c’è una tendenza a non seguire la via desiderante, ma a sostituirvi qualche altra cosa. Nel nevrotico è, per esempio, la risposta alla domanda: chi rinuncia al suo desiderio perché crede di accedervi rispondendo alla domanda dell’Altro; più risponde alla domanda, più è depresso, nel momento stesso in cui riceve in cambio segni di soddisfazione da parte degli altri. Si dice “ è un bravo ragazzo”, ma questo lo rende vulnerabile nei confronti della depressione.

 

In conclusione, ecco dunque tre dimensioni del reale, del simbolico e dell’immaginario che permettono di ordinare il campo delle psicosi. Alcune depressioni, come la melanconia, costituiscono delle urgenze psichiatriche. Esse sono refrattarie ad ogni argomento dialettico. Non si tratta dunque di parlare, esse dipendono dalla forclusione dell’istanza che permette la perdita e lo sbocco logico in questo tipo di depressioni è il suicidio.

Altre depressioni, che possono anch’esse essere molto gravi, non dipendono da questo difetto radicale, ma da una perdita accidentale del simbolo che incarnava questa istanza fallica.

E infine, ci sono numerose depressioni che dipendono da una rivolta profonda contro questa istanza che organizza il desiderio: cioè “Io non sono d’accordo, io sono contro, io sono contro la sessualità”. Ma, di più, si tratta di una rivolta contro tutto ciò che fa senso, contro tutto l’ordine sociale. Queste ultime depressioni – con cui forse non è all’ospedale che si ha più a che fare, ma dove comunque si vedono – non devono essere trattate coi farmaci se non prima che un approccio dialettico abbia potuto modificare anche solo un po’ la posizione del soggetto e farlo consentire ad un’altra forma di sostegno della sua esistenza.

 

Allora, ci sono domande, osservazioni, suggerimenti?

O. Labergère

Con riguardo alla fine, trovo ciò estremamente chiarificatore. C’è un uditorio abbastanza vario. Non tutti hanno il background analitico e in particolare lacaniano. Forse ci sono delle cose che devono passare un poco sopra la testa e tuttavia ci sono delle cose molto illuminanti, semplici, molto pertinenti. Giusto verso la fine, non è una sorpresa, ma la sua relazione è molto ben organizzata, perché lei riprende comunque la distinzione classica delle depressioni, quella che si è appresa nei manuali, particolarmente quello di Henri Ey, che è la distinzione fra depressioni nevrotiche, psicotiche o melanconiche, e reattive, cosa che è completamente abbandonata nel DSM IV, poiché nel DSM IV si tratta delle “depressioni maggiori”, e il resto grosso modo .., evidentemente c’è l’altro aspetto “Disturbi bipolari”, .. o è maggiore o niente.

B. Vandermersch

È curioso d’altra parte che non ci siano che dei “disturbi depressivi maggiori”. Lei sa perché sono stati chiamati  così?

O. Labergère

Maggiore perché si tratta di uno spazio pubblicitario per i laboratori farmaceutici

Intervento nella sala

È una questione d’intensità

B. Vandermersch

No, ci sono solo dei maggiori!

Intervento

La depressione maggiore corrisponde allo stato melanconico suicidario e (inudibile)

B. Vandermersch

Sì, ma non ho trovato un capitolo “Disturbo depressivo minore”

Intervento

Stato depressivo maggiore, nel DSM IV, vuol dire caratterizzato, con l’insieme dei criteri, e dopo ci sono dei livelli d’intensità maggiore o d’intensità moderata. È vero che la scelta dei termini è ..

B. Vandermersch

D’altronde ciò che non è facile nemmeno è come distinguere [clinicamente] “disturbi bipolari 1” dai “disturbi bipolari 2”. Apparentemente, deve cominciare con uno stato maniacale perché ci sia un disturbo bipolare 1?

O. Labergère

Tutto questo è sostanzialmente pseudo ateorico, lei l’ha detto, sottomesso a delle preoccupazioni operative e di trattamento farmaceutico, è ciò che si chiama la clinica del farmaco, si tratta di entità completamente fittizie.

Mentre l’interesse di Melanconia/Depressione reattiva/Depressione, è di dire delle cose che sono nella pratica quotidiana, estremamente illuminanti sulla natura della perdita, la natura della posizione soggettiva, e si vorrebbe che ci fossero dei manuali di psichiatria, perché adesso io penso che i manuali di psichiatria si riducano a queste inezie di bipolari I, II.

B. Vandermersch

Non è solo inezia, non bisogna esagerare!

O. Labergère

Anche nella clinica, l’interesse comunque è di orientarsi nella relazione terapeutica

B. Vandermersch

Personalmente, non sono contro gli sforzi per definire ciò che potrebbe esserci di determinismo genetico. In certe famiglie si vedono apparire regolarmente dei maniaco-depressivi, dei disturbi bipolari, come si dice oggi. È un fatto che se avete un depresso e si sa che suo zio si è suicidato, che una zia, un fratello ecc. .., si ha tendenza a rinforzare l’idea che si tratta proprio di un maniaco-depressivo. Qualunque sia il meccanismo che fa sì che ci sia una tale incidenza e che dopotutto si ricerchi se non ci siano dei supporti genetici del meccanismo regolatore dell’umore, che è necessariamente un meccanismo cerebrale, io non sono talmente contrario, dopotutto ciascuno fa il suo lavoro.

Viceversa, ciò che è grave nella posizione dominante è che essa esclude la posizione etica nella faccenda.

La depressione non deve essere considerata come una malattia che non riguarderebbe il soggetto.

Il che significa che la depressione non è una malattia che colpisce un soggetto, gli togliete la depressione, starà bene; no, non è questo. È questo modello che è pericoloso: “stavo bene, ho beccato la rosolia, ne avevo tutti i sintomi e ora ho recuperato, sto bene”. Non è una concezione corretta della depressione, delle depressioni.

Ciò che lo dimostra è d’interessarsi a come stanno le persone che soccombono a degli stati melanconici fra le crisi. Come stanno? Cosa succede? Vedrete che sono delle persone – sono normali – ma non sono normali come i nevrotici, perché non sono nevrotici, mentre dovrebbero esserlo se fossero assolutamente normali!

Cioè, sono delle persone che hanno una relativa facilità nella vita e un’assenza di inibizione, voglio dire nei casi migliori.

E poi ci sono i casi di quelli che non stanno mai bene tra una crisi e l’altra e che non hanno dei veri periodi di riposo.

Ciò che rimprovero essenzialmente alla posizione DSM è il rifiuto di prendere in considerazione la posizione etica della depressione [drammaticamente presente nella maniaco-depressiva ma così difficile da restituire al soggetto], ma anche e soprattutto, per tutte le depressioni che possono colpire ciascuno di noi, quelle che ci mettono di fronte ad un disgusto del mondo, per come esso è organizzato, e poi quelle che possono abbattersi su di noi, se perdiamo il simbolo della nostra appartenenza fallica.

O. Labergère

A questo proposito, comunque, io penso che ciò si ricolleghi a delle considerazioni più generali che sono di ordine politico, sociale, circa il posto della psichiatria; questa campagna sulla depressione è un altro modo di dirlo in rapporto al misconoscimento della posizione etica sul soggetto, è di considerare che la psichiatria è una vettorizzazione di una certa normalità sociale e di una sottomissione all’ordine dominante, di fronte al quale si tratta, quando esso è in difetto o in difficoltà, di eliminare questa disfunzione, ivi compreso servendosi degli psichiatri e degli psicologi, come servitori di un certo igienismo.

È una posizione più politica, ma io credo veramente che la campagna sulla depressione era qualcosa di quest’ordine, che ha comunque rivoltato alcuni psicologi, psichiatri, o medici.

La medicalizzazione dell’esistenza è comunque una concezione deviata della salute mentale, delle professioni della salute.

B. Vandermersch

Bisogna fare attenzione, nella critica assolutamente giudiziosa di questo tipo di campagna, a non sbagliarsi su dov’è il pericolo. Il pericolo non consiste in un eccesso del potere; è piuttosto il segno di una perdita della funzione dell’autorità, e il controllo da parte del grande mercato economico, la legge capitalista, che si sostituisce puramente e semplicemente alla legge simbolica, perché normalmente un dirigente si occupa di dirigere. Cosa c’entra questa storia di curare la popolazione che non chiede niente, di prevenire, d’intervenire nelle famiglie, cosa significa? Questo vuol dire che la nostra salute, la nostra.., sono dei domini economici.

Non è contro il potere che bisogna agire; il potere ha già da tempo perduto il suo prestigio e ha piuttosto capitolato. È piuttosto l’invasione della mercificazione di tutte le questioni umane, e pure di ciò che normalmente dovrebbe restare sacro, cioè “cosa devo fare nella vita”. La dimensione etica della depressione è “mi sono comportato conformemente al mio desiderio?” oppure “ non ho piuttosto ceduto?, sarebbe ora che mi riprenda”. Allora, se a questa questione si risponde: “Ma no, non ti preoccupare, sei triste, ma non è grave, si può curare, e d’altronde si va a fare una prevenzione della depressione ecc. ..”

O. Labergère

A questo proposito c’è una frase di Lacan che è citata nei 132 bons mots avec Jacques Lacan * di cui alcune sono rivoltanti, ma una assai gustosa, e ci si può chiedere qual è l’effetto: ad uno dei suoi pazienti, uno dei suoi analizzanti melanconici, che gli dice così, con una voce un poco spenta «Dr. Lacan, ho l’impressione di essere fottuto», e Lacan ribatte «Ma lei è fottuto!».

È un’illustrazione della vostra affermazione circa la perdita, la mancanza. Quale è stato l’effetto provocato da Lacan che impone tali enormità?

B. Vandermersch

Ho un’amica che ha raccontato recentemente come aveva così, piuttosto vivacemente, nei confronti di una depressa, non mi ricordo più bene, è Genéviève Nusinovici..

O. Labergère

È un po’ lo stile di Genéviève. Seriamente, ci si chiede se era veramente uno melanconico.

B. Vandermersch

La mia posizione è che, se sono in una posizione melanconica, mi si potrà sempre dire tutto ciò che si vuole.

O. Labergère

Lui dice: “ho l’impressione di essere fottuto” e Lacan gli risponde: “ma lei è fottuto!”, tira fuori questo!

B. Vandermersch

È ad un nevrotico che questo è rivolto; questo “sei fottuto” vuol dire: “ciò contro cui tu lotti attualmente è inutile; è già fatto”. Cioè a dire che questo irrigidirsi contro questa o quella posizione di cui ti lamenti, è senza speranza. A dire il vero, ciò che deprime di più la gente è la speranza. Niente è più pericoloso che di nutrire la speranza, perché la speranza è sempre delusa; è molto curioso che rifiutiamo questa idea così semplice, si vota ogni volta per un governo pieno di speranza, si balla, si canta, quando il nostro campo ha vinto, e nel giro di qualche mese lo stato di grazia è scomparso, si è delusi, e alcuni sopportano male tutto questo, tanto più in quanto avevano creduto che il mondo sarebbe stato sbarazzato dalla profonda discordia dovuta a questa ineluttabile istanza fallica che organizza il mondo, allo stesso tempo fonte d’illuminazione e di castrazione, e di perdita, di tutte e due le cose allo stesso tempo.

Il che non vuol dire che non ci siano dei governi peggio degli altri. Vale la pena eleggere il meno peggio. Ma sapendo tuttavia che esso non risponderà al mio umore, non è quello che curerà la discordia che risento profondamente in rapporto al disagio della civiltà, che Freud aveva visto d’altronde, e che aveva pensato che fosse legato ad un eccesso di repressione. Oggi non c’è più alcuna repressione sui sessi, e si vede bene che siamo lungi dallo stare meglio!

Ci sono forse  …

O. Labergère

Sì, un’altra cosa, assai gustosa; la frase che lei ha citata dell’introduzione del DSM IV; effettivamente essi dicono «ricusiamo questa opposizione, è anacronistica, (tipica) del dualismo corpo-spirito», ed è qui che diventa super piccante, essi continuano dicendo «ricusiamo l’opposizione spirito e corpo, ma sfortunatamente il titolo del DSM IV è sempre “Diagnosi dei disturbi mentali”, siamo stati obbligati ancora ad impiegare questo termine perché non gli abbiamo trovato un sostituto soddisfacente».

È davvero straordinaria questo genere di dichiarazione!

B. Vandermersch

«Diagnosi dei disturbi cerebrali» sarebbe perfettamente convenuto, ma ..

O. Labergère

Io trovo che sarebbe stato più onesto, neuronali, ma non so cosa ..

B. Vandermersch

Ancora una volta farò l’avvocato del diavolo: ma nello stesso tempo abbiamo sofferto durante dei decenni, prima dell’invasione del cognitivo-comportamentalismo e neuronale, abbiamo sofferto di una posizione dominante della psicoanalisi, nel senso che essa avrebbe una risposta a tutto “Questo è psichico, hai mal di fegato, è psichico, e..” No! C’è questo fatto che siamo dei corpi, profondamente perturbati dall’incorporazione del linguaggio, certo, ma alla  fine, siamo comunque fatti di budella!

O. Labergère

Lo spostamento del suo separazione/dualismo, è eccellente, non fra corpo/spirito, ma fra corpo utile e corpo del godimento.

B. Vandermersch

[È di Lacan] È importante questo, perché gli “psy” sono spesso imbarazzati nel rispondere a questa domanda: “Tu sei psico-genetista oppure organo-genetista?”, come se fosse questa la divisione.

Vi farò notare che la psicologia è sullo stesso livello della scienza, c’è la cerebrologia, c’è la psicologia, a partire dal momento in cui c’è il termine “logia”, cioè un discorso obbiettivo su un oggetto, si è nella scienza, si è dallo stesso lato. Non c’è nessuna separazione fra la neurologia e la psicologia.

Per contro, il mio corpo non è lo stesso nel momento in cui è osservato da uno psicologo, anche con il cervello, o da un radiologo, ecc., o nel momento in cui lo posso sentire quando farfuglio qualcosa davanti a un pubblico, quando sono davanti ad una donna.

È tutta un’altra cosa, e questo corpo del godimento è il corpo reale in fin dei conti, quello sul quale non ho discorsi da fare, che non posso raggiungere. Bene, ecco.

E qui c’è un vero taglio.

D’altronde oggi, con l’ideale di trasparenza, l’idea che niente debba sfuggire allo sguardo, e dunque pure ciò che c’è di più intimo, la sessualità, quello che penso, ecc., non c’è nessuna ragione che questo sia staccato dal resto, si produce la perdita di questo luogo del sacro che senza dubbio favorisce questa depressione generalizzata. Se non c’è un luogo di ricetto dove io possa mettere i miei oggetti, nell’inconscio, se tutto deve essere cosciente, non c’è più posto per il soggetto, è tutto! Il soggetto è ciò che è inconscio; non è “io”, il soggetto è ciò che si suppone che parli quando io parlo, è una pura ipotesi. Si può pensare o che è un disco che sta parlando o che io recito una lezione, si può pensare questo. Forse voi fate l’ipotesi che c’è un soggetto che parla, ma cos’è questo soggetto? È semplicemente un luogo inaccessibile, ecco tutto! Un luogo di ricetto, un luogo che è animato da del desiderio, è tutto!

Se si vuole mettere tutto sul tappeto, se si vuole aprire questo luogo di ricetto, è la perdita della soggettività, tutto è conscio, ebbene, è esattamente il dramma del depresso, il depresso è quello che non è più animato da un luogo esterno a lui. Momentaneamente, è otturato.

 

Forse avete delle osservazioni? O delle obiezioni, questo sarebbe interessante.

A meno che non ce ne siano da parte sua, Olivier?

O. Labergère

Ci sono tante cose appassionanti

Intervento

Io avrei una piccola osservazione concernente ciò che lei diceva sul depresso melanconico. Mi è sembrato di capire che lei suggerisce che in questo caso non c’è niente da fare, dal lato della parola

B. Vandermersch

Nel momento della crisi, quando arriva in questo stato.. Le giuro che la signora che abbiamo visto l’altro giorno, nel momento in cui era lì si sarebbe potuto parlare delle ore e delle ore, niente si sarebbe smosso. Tra l’altro, questo è un caso un po’ particolare, ma nelle grandi melanconie acute, francamente, una volta stabilito con che cosa si ha a che fare, la prima cosa da fare è di fare un trattamento. Dopo si procede alla sua osservazione. Certamente, si parla, ma è solo in un secondo tempo, quando non si è più nell’urgenza suicidaria, che la parola riprende i suoi diritti e il suo potere. Effettivamente, io ho avuto in analisi, e molti altri analisti pure, nella misura in cui c’è analisi, delle psicosi maniaco-depressive. Ebbene, non è completamente inutile il lavoro che si fa. Bisogna riconoscere che le persone che lo intraprendono, lo fanno spesso sotto la forte pressione del loro entourage, che raramente ha interesse per questo genere di intervento. Nel caso al quale penso, il paziente ha visto progressivamente i suoi episodi diradarsi, e poi, a mia conoscenza, sparire. Ma alla fine niente prova che non possa avere una ricaduta fra venti anni!

Ma vale la pena di fare questo! Non fosse che per permettere al soggetto di reperire qual è la sua posizione soggettiva e di ritrovare una dimensione etica. Perché si tratta di persone che trattano il loro corpo come una macchina e non come un luogo di godimento; è paradossale, poiché c’è un’invasione del godimento nello stato maniaco ad esempio, ma esse non ne parlano, una volta che si è riassorbito, è un discorso dei più banali, a meno che non abbiate altre idee, altre esperienze, è un discorso dove la soggettività è cancellata.

Intervento

Questo mi sembrava importante precisarlo; all’ospedale..

B. Vandermersch

All’ospedale io incoraggio non soltanto i medici a scrivere ciò che i pazienti dicono, magari non nel dossier che deve essere trasmesso alle autorità, ma insomma in un quaderno speciale, e così pure gli infermieri a parlare con la gente. Bisogna parlare con le persone! Bisogna ascoltarle, e cercare di portarle.. Questo è essenziale; è essenziale per cercare di farsi un’idea, se stessi, di che cos’è una malattia mentale.

Sono d’accordo con lei, bisogna.. Ma bisogna mettere le cose al loro posto, quando c’è un’urgenza suicidaria non è il momento.., Ma bisogna avere il coraggio di farlo! Bene, Maria, lei ha un’osservazione da fare?

Dr. Maria Ruiz

Dove situa lei l’alterazione della sensibilità nella depressione?

B. Vandermersch

L’alterazione della sensibilità..

Dr. Maria Ruiz

Lei parla molto della dipendenza dall’altro, ma si tratta di persone che non hanno gusto, che non hanno sensibilità. Lei ha criticato tutte queste tecniche, che vanno.., ha parlato della situazione del fallo, con questo termine tecnico, la ricerca dell’essere, dell’essere

B. Vandermersch

È un fatto che si arriva al mondo come il piccolo fallo della propria madre, a cui mancava da sempre, si arriva, nei casi migliori lei è rapita, lei mi vede e.. bene! È il lutto di ciò che devo fare se voglio divenire un soggetto desiderante, pazienza se la lascio su una mancanza!

Dr. Maria Ruiz

Noi vediamo delle persone che dicono di non avere sensibilità, cioè alterazione della sensibilità a tutti i livelli, è sicuro che quando si è in ospedale, non ci si situa in una tecnica determinata, ma si fa una specie di amalgama delle tecniche..

B. Vandermersch

Questo dipende da come si è fatti,

Dr. Maria Ruiz

Io constato che questo funziona, quando si dice al paziente “cerchi di sentire gli odori, utilizzi la sensibilità per uscire dalla depressione”, in questo caso dove le situa [queste sensazioni] ?

B. Vandermersch

È questo che le sto dicendo. Da che cosa dipende il fatto che le cose hanno gusto? Le cose hanno gusto perché sono illuminate da questa istanza fallica! Le cose non hanno gusto in sé. Lei dirà “gli animali adorano lo zucchero e dell’istanza fallica se ne fregano!” D’accordo, ma alla fine noi siamo degli animali completamente snaturati dal linguaggio! E si sa benissimo che il dolce più buono per un depresso può diventare niente, niente; tutto è grigio, tutto è piatto. Dunque lei, grazie alla sua inclinazione, dice: “Ma questo, questo m’interessa”, e grazie a questa offerta desiderante, lei cerca di provocare nell’altro uno stimolo, cioè che egli ritrovi un minimo d’interesse per il gusto, per il gusto delle cose; cioè a dire che lei introduce la dimensione fallica anticipandola.

Dr. Maria Ruiz

Ciò che m’imbarazza è che io penso che ci sono cose della sensibilità che non passano necessariamente dal linguaggio, che sono anteriori al linguaggio

B. Vandermersch

Anteriori al linguaggio nel senso in cui il fallo è un significante che non è qui; ma è esso che organizza tutti gli altri; se un dolce è buono, è un affare di linguaggio, e si potrebbe parlarne delle ore, del dolce che è buono oppure no, era quello di mia nonna.. Spesso è legato a storie di famiglia, di nazioni..

Il gusto è ciò che fa sì che a me piacerebbe tale sapore speziato, ecc., sarà sempre un ricordo legato a qualche circostanza che avrà un significato per me, e questo è sempre preso in una significazione! Ciò che non vuol dire che il gusto nell’assoluto dipende dal linguaggio, ci sono delle papille gustative che non hanno niente a che fare col linguaggio, sono d’accordo con lei. Tuttavia, se tale sensazione per me è piacevole, mentre per un altro è neutra o sgradevole, è proprio perché per me è stata associata a qualcosa che è stata segnata da un’illuminazione di qualcosa.

Dunque io trovo che lei ha ragione di cercare di provocare nel paziente un interesse per ciò che è fuori di lui

Dr. Maria Ruiz

È questo, tutte queste tecniche che..

B. Vandemersch

Ma quali che siano queste tecniche se esse.., d’altronde nella malinconia si può sempre provare.., ma è vero che [deve essere operante] in alcuni, soprattutto nelle persone anziane, nelle quali c’è una specie di stanchezza dell’istanza desiderante..

Avete altre osservazioni, altre obiezioni? Perché vedo che..

Dr. Maria Ruiz

Io penso che ci sono delle cose che sono prima del linguaggio, e che c’è una parte della sensibilità che.., è l’effetto di sentire, non è necessariamente

O. Labergère

Io sono d’accordo con lei, ma ciò che io penso è che c’è tutta una corrente di pensiero, ivi compresa analitica, per la quale c’è del pre-verbale, della presenza, e certi winnicottiani, c’è qualcosa qui che li differenzia molto dai lacaniani, benché i lacaniani non siano tutti  così, ciò che organizza la differenziazione è comunque il linguaggio, il fallo, sono assolutamente d’accordo, ma ci sono comunque tutte queste correnti.. Capisco ciò che dice Maria, è che comunque nella depressione c’è qualcosa di una specie di presenza..

B. Vandermersch

Tanto più che nella depressione c’è una patologia del linguaggio, una casella ritorno; devo insistere a questo proposito sulla perdita dell’effetto metaforico del linguaggio, cioè che il linguaggio ritorna ad essere un linguaggio di segni

Dr. Maria Ruiz

Pure nella psicosi, ed è questo giustamente

B. Vandermersch

Non soltanto.. La questione di prima del linguaggio è perché ci si mette in una prospettiva genetica, ma il bambino non ha parlato subito, egli è stato innanzi tutto posto a confronto con l’odore di sua madre, ecc. ecc. Nondimeno, gli odori, le diverse sensazioni, sono ripresi, in quanto essi si manifestano in questo luogo di mancanza che è organizzato dal fallo; questi oggetti non sono del linguaggio in quanto tali, la m…, non è del linguaggio. Ma si ritagliano in seguito dal linguaggio per manifestarsi in questo luogo che è organizzato da questo significante particolare, il significante fallico, e il seno che organizza il fantasma non è il seno pieno di latte, è il seno in quanto esso è svezzato, ritagliato dal corpo. Se si vuole cercare di ritrovare una specie di mito, odore primitivo, perché no? Ma, in definitiva, questo primo odore non avrà valore per il soggetto se non in quanto si ritroverà investito da un amore. Voglio dire che se questo non ha al minimo il significato di un amore, di una rinarcisizzazione, è senza effetto. D’altronde, potete pensare che è unicamente perché ha sentito l’odore? No, è perché, risentendolo, lo ritrova in una posizione in cui è narcisizzato.

O. Labergère

Giusto una parola, io credo che prima, in certe strutture, pre-nevrotiche o psicotiche, ancora prima di potere accedere al linguaggio, è necessario procedere ad un azione dell’ambiente, del quadro, che permetta una holding, una presenza, che permetta a poco a poco che le rappresentazioni possano di nuovo essere accessibili, in definitiva c’è qualcosa di pre-verbale qui, Winnicott stesso nella seduta di analisi faceva..

B. Vandermersch

Pensa che sia pre-verbale, mi piacerebbe

O. Labergère

No, non è che pensa questo, è che pensa che ci sono delle necessità di modificazioni dell’ambiente, ivi compresa una presenza fisica, e per ciò che dice Maria, per qualcosa di non so che, questo è una delle cose della pratica, non si farà una terapia, un’analisi, fare del bla bla bla

B. Vandermersch

Assolutamente

O. Labergère

Ci sono dei momenti, ciò che Winnicott chiama la regressione, essenziali perché in seguito ..

B. Vandermersch

Ma io sono assolutamente d’accordo con questo; semplicemente è un’illusione credere che tutto ciò che si fa, questi gesti, dare una pacca sulle spalle per dire buongiorno, ecc., che questo sarebbe fuori del linguaggio [riscritto dopo]

Dr. Maria Ruiz

È fuori dalle parole

B. Vandermersch

È fuori dalle parole, ma non si è costituito fuori dal linguaggio, è per me..

O. Labergère

Non è una mistica del fuori linguaggio, è per me..

B. Vandermersch

Ma se è semplicemente per dire che non ci sono solo le parole che contano io sono d’accordo, sono assolutamente d’accordo. Ci sono altri modi per far sentire a qualcuno che ci si occupa di lui, che ha diritto di essere un umano come gli altri, che ha diritto di esistere, mentre lui sta dicendo “mi sto espellendo dal mondo” ebbene, io lo riacciuffo, lei ha ragione; delle persone sul divano, per esempio, stanno sul divano per anni, mentre la cosa che li avrebbe salvati, era di rimetterli faccia a faccia, di riprenderli un po’ “in mano”, sono d’accordo. Ma, se.., alla fine, io credo che siamo più o meno d’accordo.

O. Labergère

Bene. Grazie, infinitamente.

 

 

Trascrizione: Dominique Kayal e Genéviève Schneider

25 febbraio 2009

 

Traduzione di Mariella Galvagno


* In Italia, dall’editore Gremese

* J. ALLOUCH, 132 bons mots avec Jacques Lacan, Toulouse, Erès, 1984.

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